ORRORI DEL XX SECOLO: IL RICORDO DELLE FOIBE. L’ECCIDIO E IL DRAMMATICO ESODO DEGLI ITALIANI AL CONFINE TRA DUE MONDI.


TRAGEDIE DIMENTICATE. Dal 2004 ogni anno il 10 febbraio è denominato “Giorno del ricordo”, per volontà del Parlamento (L. 30.03.2004 n. 92), in memoria della data del 10.02.1947 quando furono firmati i trattati di pace di Parigi, che assegnavano alla Jugoslavia l’Istria, il Quarnaro, la città di Zara con la sua provincia e la maggior parte della Venezia Giulia, in precedenza facenti parte dell’Italia. Si è riaperta, così, e portata nelle scuole, una pagina tragica della nostra storia recente, la vicenda degli italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia perseguitati, uccisi o costretti all’esodo. Per tanto tempo essa fu ignorata, rimossa o addirittura negata, soprattutto per ragioni politiche: dopo la seconda guerra mondiale il governo italiano non intendeva creare dissapori con la vicina Jugoslavia, con la quale iniziava una fruttuosa collaborazione, inoltre il modello titino, con la sua esperienza resistenziale, suscitava ammirazione ed era opportuno porre in sordina i motivi di contrasto. Si era attenti, piuttosto, alla scelta di campo dell’Italia e, con l’inizio della guerra fredda, alla scelta del blocco a cui aderire. Passarono cinquant’anni di silenzio sulle sofferenze degli italiani sotto l’occupazione dei comunisti jugoslavi e sulle foibe e sulla carneficina patita, che può dirsi “pulizia etnica”. Lo ha scritto, nel suo messaggio di quest’anno, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “la persecuzione, gli eccidi efferati di massa -culminati, ma non esauriti, nella cupa tragedia delle Foibe- l’esodo forzato degli italiani dell’Istria della Venezia Giulia e della Dalmazia fanno parte a pieno titolo della storia del nostro Paese e dell’Europa”. Questa pagina di storia nazionale è tutt’altro che irrilevante, se non altro per il dolore di cui è imbevuta.

LE RADICI DEL DRAMMA. In quella terra di confine ma terra plurale, soggetta fino al 1918 all’impero austro-ungarico, convivevano in modo pacifico tre gruppi etnici: italiano, sloveno e croato, distribuiti in modo non omogeneo (gli italiani erano prevalentemente insediati nelle città, gli slavi nelle campagne). Dopo la prima guerra mondiale alla Jugoslavia era stata assegnata la Dalmazia, all’Italia Gorizia, Trieste e l’Istria fino a Pola, includendo nei confini italiani una forte componente slovena. Bisogna considerare che in queste regioni, negli anni trenta e quaranta del Novecento, il fascismo impose l’italianizzazione: obbligo dell’italiano come unica lingua pubblica, chiusura delle scuole slovene e croate, divieto di impartire l’istruzione religiosa e di celebrare le funzioni in lingua slava, chiusura delle organizzazioni economiche, culturali e ricreative slovene.

PERSECUZIONI, FOIBE, L’ESODO. Ma che cosa accadde esattamente nelle regioni del confine nord-orientale dell’Italia negli anni fra il 1943 e il 1947? Nel settembre-ottobre 1943, nelle settimane intercorse fra l’8 settembre (dissoluzione dell’esercito italiano a seguito dell’armistizio) e l’occupazione tedesca, nel vuoto di potere creatosi, nell’Istria interna avvenne il primo eccidio di italiani. Vennero sommariamente giustiziati gerarchi fascisti ma anche dirigenti, impiegati, insegnanti, farmacisti, possidenti, insomma quelli che gli slavi ritenevano la classe dirigente italiana (dalle 500 alle 700 persone). Nel maggio-giugno 1945 si svolse la seconda fase delle rappresaglie contro gli italiani e stavolta fu un eccidio di massa. 40 giorni di terrore, con l’invasione, da parte di Tito e di partigiani comunisti iugoslavi e italiani, di Trieste e Gorizia. Dati incerti: dalle 4000-5000 vittime, secondo alcune fonti, alle 10000-12000 secondo la maggior parte delle fonti, passate per le armi ed infoibate (gettate nelle foibe, pozzi carsici presenti sul territorio). Una forte vena nazionalista unita al desiderio di vendetta guidò la resa dei conti delle popolazioni slave, una resa dei conti brutale, violenta e indiscriminata motivata dall’inesatta corrispondenza italiano=fascista. Inoltre i nuovi governi volevano compattare e controllare la società, rendendola culturalmente omogenea. La dura dittatura comunista, minacce e violenze, spaesamento, una politica di cancellazione dei caratteri nazionali spinse gli italiani a partire, anche per mare. Il Piroscafo Toscana (già Saarbrücken), utilizzato dalla Regia Marina come nave ospedale durante la seconda guerra mondiale, tra il 2 febbraio ed il 20 marzo 1947 trasportò verso l’Italia, da Pola a Venezia, complessivamente, 16.800 profughi istriani (per altra fonte 13.056). In sintesi solo dai territori passati alla Jugoslavia, tra 1943 e 1959 (l’esodo continuò per 14 anni dopo la guerra), partirono 250mila persone. Non tutti vennero in Italia: ci fu chi scelse, per esempio, la Francia o l’America. Per alcuni l’Italia era un Paese straniero. E in ogni caso, in un territorio distrutto, con le città demolite dai bombardamenti post bellici e oppresse dalla fame, l’accoglienza non fu facile; quegli italiani, dopo aver perso tutto, furono guardati con fastidio, disprezzati, e accolti in «campi profughi» spesso fatiscenti.

LA CONDIZIONE DELL’ESULE da una terra che è contesa e teatro di violenze, la vita del profugo in cerca di un luogo dove insediare il suo progetto di vita interpellano particolarmente il popolo italiano, che ha conosciuto la sofferenza della migrazione, che ha patito sulla sua pelle i dolori delle partenze. “Nessuno può immaginare che cosa significhi nascere e vivere al confine tra due mondi, conoscerli e comprenderli ambedue e non poter far nulla per ravvicinarli (…) avere due patrie e non averne nessuna (…) (Ivo Andric, in F. Molinari, Istria contesa, -la guerra, le foibe, l’esodo, Mursia, 1996). Testimonianze dirette, scritte sui libri e/o portate in scena a teatro (si veda in proposito “Magazzino 18” di S. Cristicchi) aiutano a focalizzare più direttamente quanto accadde in quei luoghi. Scriveva Tommaso Besozzi, inviato dell’Europeo (in A. Petacco, L’esodo, Mondadori, 1999): “Pola, febbraio 1947. In quei giorni chi arriva a Pola si trova di fronte a uno spettacolo che lascia perplessi. Ovunque i segni della partenza, e che essa sia quasi totale non c’è dubbio. Trentamila su trentaquattromila hanno chiesto di essere trasferiti (…). Alla stazione ferroviaria montagne di masserizie (…). Tutte le case rintronano di martellate. Giorno per giorno le case si svuotano. Gli italiani se ne vanno nella proporzione di diciannove su venti”. Lo scrisse anche Indro Montanelli, citato nel medesimo saggio di Petacco. “Per il 95% questi esuli sono dei poveri diavoli, e le loro masserizie ne denunciano la miseria (…). Il comunismo e l’anticomunismo non c’entrano”.

LACERAZIONI DELLA STORIA E DELLA SOCIETA’, barbarie perpetrate dalle dittature, di destra o di sinistra, travolsero in quegli anni la civiltà occidentale, dopo che, purtroppo, “la storia della vita e del pensiero umano del Novecento” era stata “scandita da trent’anni di guerra mondiale, anche quando i cannoni tacevano e le bombe non esplodevano” (Erich Hobsbawn). Esse minacciano ancora di risorgere, e a tale rischio si devono opporre il baluardo della cultura, dei valori della civiltà umanistica, della ragione e dell’intelligenza vigile. La memoria della storia e la coscienza della “cruda verità” possano “favorire lo sviluppo del senso civico e dei valori della cittadinanza, della pace e della solidarietà e siano da monito per diventare cittadini consapevoli e migliori” (D. Guidaldi, I.I.S. “R. Guttuso” Milazzo, circ. int. n. 119 del 08.02.2020).

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