“Libriamoci a scuola”, con i classici.
Nel predisporre il “piano di lavoro”, anzi di lettura, per le giornate del “Libriamoci ”, ho richiamato alla mente i pensieri degli anni in cui, studentessa, mi incantavo sui libri col profumo d’antico, assaggiando parole che il tempo non ha consunto, forse per… il tempo, lungo e bello, che si sono ricavate nella mia giovinezza. Sembra passato un secolo. Non è più così: la nostra epoca è certamente caratterizzata dalla preponderanza dell’immagine rispetto al messaggio scritto, oggi molti ragazzi “vedono” senza esplorare e cercare, seguono racconti solo se sono corredati o spiegati dalle immagini. Eppure “messaggiano” tanto, dunque sappiamo per certo che non hanno perso la voglia di raccontare e di ascoltare piccole e grandi storie. Come può la scuola sfruttare queste potenzialità, inserendosi pedagogicamente per veicolare in modi diversi tanta attenzione per le parole e per l’affabulazione?
La questione del leggere a scuola è di spiccato interesse. Il prof. Gian Luigi Beccaria, noto linguista, in un suo saggio, (cfr. G.L. Beccaria, Per difesa e per amore, Garzanti, 2006) sostiene che non si insiste mai abbastanza sul fatto che l’attenzione al testo, in tutti i suoi aspetti, è un grande servizio che un docente può offrire non soltanto al futuro umanista, ma anche ai futuri ingegneri, ai fisici, ai chimici, ai tecnici. Imparare a leggere aiuta nella tecnica del mascheramento e dello smascheramento, e rende capaci di interpretare le sfumature del discorso degli altri, stimola lo spirito critico e soprattutto dà una mano per non essere manipolati. Leggere, rileggere con attenzione, decodificare un messaggio a livello lessicale, sintattico, dei connettivi testuali, dei rimandi intertestuali ed extratestuali, cogliendo ogni dettaglio, ogni sfumatura: è questo che l’alunno dovrebbe imparare a fare, e il suo insegnante si è formato ed aggiornato nella didattica volta all’insegnamento di queste abilità. Una società funziona non quando le persone sanno usare il computer, navigare su internet, parlare l’inglese, (anche quello aeroportuale), tutte cose senz’altro utilissime, ma quando ciascuno è in grado di riflettere sul senso delle parole che sente, usa, legge. E tutto questo si impara dal molto leggere. Non meravigli che l’indugio del leggere, lento, distanziante, permette ancora di maturare una coscienza critica, di riconoscere il divenire delle cose, di formulare su di esse giudizi fondati.
In tutto questo la scuola promuove la letteratura e difende i libri, in particolare quelli che “mettono pensieri”. Quando si legge un libro di un grande autore, ad esempio, non sempre ci si rilassa e diverte, qualche volta ci si affatica, ci si addolora, perché è come se la testa iniziasse a produrre vorticosamente pensieri a partire da quel testo. È un fatto strano questo? E quali libri la scuola mette in campo per queste prodigiose azioni nei cervelli degli studenti? Solo dei libri che “garantiscano” gli effetti di cui sopra, i cosiddetti “classici”.
Che cosa sono i classici? Quei libri da leggere in ogni tempo, il cui valore ha uno spazio insostituibile, da non confondersi in nessun modo con quello del mercato. Nei programmi scolastici ci sono, inseriti d’obbligo. Sono classici, e accostarsi ad essi costa sforzo nella lettura, attenzione e lavoro, ripagati, comunque, nel tempo, in termini di raffinamento del senso estetico, di consapevolezza del sé e delle radici storiche della propria identità culturale. In questo senso la scuola è impositiva, ma nel contempo propone all’allievo un classico come affidando alla sua custodia un tesoro. Il ragazzo apprenderà piano piano che non si legge un classico per le sue qualità, bensì per la sua bellezza. La sua bellezza immortale ce lo fa amare.
Si può porre lo studente nell’ottica di un incontro fortunato, e di una lettura che avviene con la guida dell’insegnante-mediatore, colui che gli ha dato e gli continua ad elargire strumenti per leggere tenendo presente la centralità del testo. Bandite le pedanterie metriche, filologiche, le bieche e irrisolte questioni di critici e commentatori antichi, il giovane, a scuola, è posto davanti ad un classico con prospettive meno drammatiche che nel passato, e più innovative: dalla antropologia alla psicanalisi, dalla storia delle tradizioni popolari alla musicologia, alla etnografia…
Noi professori siamo perennemente a caccia di parole e a caccia di storie interessanti per i nostri ragazzi. Non ci dobbiamo stancare di proporre i classici con parole che animano la discussione sui fatti, sui principi, sui sogni. Dobbiamo attingere ai classici, e riviverli, rivisitarli, riappropriarcene nel modo più consono, per quanto è possibile, mossi, oltre che dal nostro dovere e dai programmi, da autentica passione. Dobbiamo, però, anche, regalare ai nostri ragazzi le parole e le storie che abbiamo qua e là carpito noi stessi nelle letture, nelle esperienze, negli incontri, tendendo ad una forte autenticità, alla freschezza di consegne… più personali. Se facciamo esperienza dei classici scopriamo che essi sono un passo oltre, rispetto a noi, “non sono nostri contemporanei, siamo noi che lo diventiamo di loro”. Sono, piuttosto “i contemporanei del futuro” (è una definizione di Giuseppe Pontiggia), la riserva del domani. Non possiamo rinunciare al loro apporto. La scuola non può rinunciarci e neanche la società può farlo, perché una società che rinuncia alle verità di ieri abdica in anticipo dinanzi alle verità future.